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Carbonia. Omero incontra Shakeaspeare nella Sardegna senza tempo di “Macbettu”.

Spettacolo
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V’è qualcosa di omerico, più che di shakespeariano, nel “Macbettu” di Alessandro Serra e di Teatropersona, andato in scena il 10 gennaio sul palcoscenico del Teatro Centrale di Carbonia per la rassegna targata Cedac. Per la prima volta nella sua completezza – dopo una “prima” nel 2014 a Palau, l’anno scorso era stato a Cagliari presentato in due distinte fasi – il lavoro del giovane regista di origini sarde ha saputo “tradurre” la tragedia del Bardo, nel senso di “trasporre” il testo del “Macbeth” in una Sardegna davvero senza tempo e senza spazio, archetipica senza essere “tipica”, fino a portarlo ai confini della storia come in un poema omerico. E non solo per alcuni riferimenti più o meno espliciti, in particolare la scena dei servi che Lady Macbeth narcotizza con il vino prima che Duncan venga trucidato dal marito, trasformati in porci che bevono carponi da un lavamano di ferro smaltato, come i compagni di Odisseo affatturati dalla maga Circe; o l’avanzare della «foresta di Birnam», quando i soldati di Malcolm e Macduff si celano non già con i rami ma dietro maschere di corteccia di sughero che, nella luce fioca, hanno sembianza di elmi di guerre preistoriche e il rumore dei campanacci, più che richiamare il suono dei Mamuthones, da cui Serra ha tratto l’idea di “Macbettu”, evoca quello delle greggi, così che i baroni della Scozia del Basso Medioevo trasfigurino in “wanax”, re pastori della Grecia micenea. Un Omero intensamente “materico”, nella polvere che si solleva al muoversi degli attori e al cadere loro e degli oggetti sul palcoscenico, che emana dai vestiti delle Streghe che danzano all’inizio della rappresentazione, che si muove fra i cupi fasci di luce che illuminano la scena; nel ferro bruto e brunito degli alti pannelli verticali , in realtà semplici tavoli rettangolari con quattro piedi agli angoli, che vengono mossi di volta in volta dagli attori a modificare efficacemente lo spazio scenico o percossi come primordiali metallofoni; le pietre grezze impilate ad ogni omicidio come per una macabra contabilità. I sentimenti, per di più, hanno la stessa semplicità “primitiva” delle cose, proprio come nei poemi delle civiltà arcaiche: sentimenti di figure eroiche, anche nelle manifestazioni del peggio che possa scaturire dal cuore di uomo. E la ferocia degli omicidi di Macbettu e la sua stessa morte per mano di Macduff ha il marchio della brutalità degli scontri sotto le mura di Ilio, laddove invece il teatro elisabettiano non prevede la vista della messa a morte ma solo il racconto. La lingua – a Carbonia, più che altrove in Sardegna, ostica per lo spettatore – è un ostacolo che, a patto di conoscere il “plot”, si può superare, sia per la capacità degli attori di accentuare il senso delle parole con l’intonazione sia per l’asciutta “genuinità” gestuale , ciò che fa immaginare un bel futuro per questo lavoro. Gli attori, tutti di sesso maschile, come ai tempi di Elisabetta I e come anche nelle più proprie manifestazioni del Carnevale isolano, hanno assecondato, ancorché non tutti sardi, le esigenze linguistiche del testo elaborato da Giovanni Carroni, sul palcoscenico pure in veste di attore, in lingua di Nuoro, quella che più di ogni altra delle tante varietà dell’idioma nostrano ha conservato i suoni del latino classico, al quale la palatalizzazione delle consonanti era sconosciuta: durezza sonora che ben si è attagliata al crudezza della vicenda e della scena. Nonostante ciò, tuttavia, Serra non ha rinunciato ad assecondare la costante shakespeariana nell’inserimento del personaggio comico all’interno delle trame tragiche. Così è il Portiere che nel testo orginario apre, con la descrizione licenziosa degli effetti della sbronza, la scena III del II Atto, poco prima della scoperta dell’assassinio del re da parte di Macduff. La parte è stata affidata a Maurizio Giordo e recitata in lingua sassarese, che ha nella sua “phonè” così venata di ironia tagliente e sarcastica un tratto tutt’affatto confacente. Una funzione comica – nonché di cesura fra alcune delle scene – è stata affidata anche alle tre Streghe, non già confinate all’enunciazione delle profezie che oscurano la mente del protagonista ma impegnate anche in scorribande e baruffe quasi da Commedia dell’Arte. In tal caso potrebbe aver fatto da tramite Verdi o, meglio, il suo librettista Francesco Maria Piave: i versi sdruccioli nell’apertura del III Atto del loro “Macbeth”, per il sabba («Tre volte miagola la gatta in fregola», «Tre volte l'upupa lamenta ed ulula», «Tu, rospo venefico/ Che suggi l'aconito,/ Tu, vepre, tu, radica/ Sbarbata al crepuscolo» e così via) sono screziati del sorriso che alle “Witch” di Shakespeare («Scale of dragon, tooth of wolf,/ Witches’ mummy, maw and gulf/ Of the ravin’d salt-sea shark,/ Root of hemlock digg’d i’ the dark» etc.) manca del tutto. Una scelta che, a prima vista, potrebbe apparire sorprendente, straniante ma questo è “Macbettu” e, in Sardegna, “sa bruscia” è un personaggio temuto, certo, ma anche fonte di sapide ironie. Qualche altra parola infine va spesa per la scena della morte di Lady Macbeth: un corpo nudo, che cela tuttavia gli attributi maschili, rannicchiato dapprima e poi in piedi che scivola lentamente, nel silenzio, dietro un pannello per appendersi e penzolare, suicida impiccato, visibile a metà dalla platea quasi nella tenebra, agghiacciante finale di una vita sprofondata nella folle solitudine. Il prossimo spettacolo del cartello Cedac, è previsto per il 28 gennaio. In programma “Classe di ferro”, di Aldo Nicolaj, “pas de trois” per tre ottimi e navigati protagonisti della scena nazionale: Paolo Bonacelli, Giuseppe Pambieri e Valeria Ciangottini.

Giovanni Di Pasquale

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